Friday, December 30, 2011

Una nuova teoria?
Appunti per la ricostruzione di una politica democratica per la scuola.

Giovanni Sedioli


In questi anni abbiamo avuto di fronte un Governo che ha compiuto scelte gravi e secondo una linea precisa di pensiero sulla scuola. Le sue iniziative, pure molteplici e di differente rilevanza, da quelle strutturali a quelle estemporanee, hanno mostrato purtroppo indubbi elementi di efficacia rispetto alla logica presupposta.
Sulla scuola i comportamenti corrispondono a quanto praticato sulla economia e più in generale su quanto riguarda il sociale: una politica volta a premiare i comportamenti individuali, qualsiasi essi siano (anche sul piano etico), con una brutale logica “i migliori ce la faranno”. Il risultato è ovviamente che ce la fanno solo quelli che forti sono già, con un sostanziale arresto della mobilità sociale, un clamoroso dissesto della equità, un regresso della generalizzazione delle spinte utili al rinnovamento anche economico, un impoverimento progressivo della risorsa umana. Il quadro è peggiorato da comportamenti eticamente scorretti che amplificano gli effetti descritti. Per un verso si ha un effetto di allentamento dalla politica per sfiducia, per l’altro l’abile (e generalizzata) gestione dell’informazione genera consenso populista.

La sinistra.
Dobbiamo ammettere che la risposta della sinistra è stata spesso debole e non solo per la mancanza (che pur conta molto) degli strumenti della informazione. Si sono ribaditi correttamente alcuni principi ispiratori volti a confermare l’interesse di un paese civile per la scuola e per la sua generalizzazione per tutti, principi riconducibili a questi assunti:
nella scuola si costruiscono i diritti di cittadinanza (capacità di comunicare, di comprendere, di selezionare l’informazione, di farsi una propria idea, di costruire le condizioni per una scelta di vita e degli strumenti per praticarla)
la scuola è strumento di equilibrio e mobilità sociale, se rivolta a tutti, crea pari opportunità e consente a ciascuno il raggiungimento delle condizioni per il miglioramento individuale e dei gruppi
la scuola costruisce le condizioni per lo sviluppo e la competitività economica, formando la risorsa umana in grado di sostenerla. Insomma la scuola è alla base del benessere materiale dei cittadini
ma la parte propositiva è risultata più incerta. Ciò è avvenuto per l’incapacità di individuare obiettivi condivisi dalla generalità dello schieramento poltico, ma anche per una oggettiva tentazione ad arroccarsi su risultati positivi già raggiunti (generalizzazione della scuola dell’infanzia, tempo pieno, aspetti di qualità della didattica, integrazione..) dimenticando che la dinamicità della società deve trovare un motore nella scuola.
Vale la pena esaminare alcuni punti che, visti insieme, danno il senso che gli “aggiustamenti in corso d’opera”, riforme parziali, revisione dei cicli, mosaici, cacciaviti, riforme epocali non possono risolvere il problema (non i problemi) che la scuola oggi presenta: la sua impossibilità a essere punto di riferimento della società cambiata e che non sta ferma. Serve un principio ispiratore nuovo cui richiamare la responsabilità di tutti.

Alcuni punti critici.
I numeri. L’aumento dei frequentanti, legato ai processi demografici, ma ancora di più all’allargamento dell’accesso a fasce sociali sempre più ampie e ora di fatto alla totalità della popolazione in età, almeno nella scuola di base ha modificato sostanzialmente il quadro. Siamo passati dalla visione di una scuola che poteva essere aperta a tutti per apprendere a leggere, scrivere e far di conto per poi diventare, per mission, fortemente selettiva, al riconoscimento, almeno sul piano dei principi, che il diritto alla istruzione vale per livelli di età sempre più alti. Si è affermato, il dovere dello stato di provvedere a che questo diventi vero, ma al di là delle resistenze politiche e di principio, la vera strettoia sta nel fatto che l’aumento dei numeri, che ha comportato la presenza a scuola di fasce sociali non omogenee, non è stato associato ad una revisione ordinamentale e di principi educativi in grado di reinterpretare la funzione. Nella vecchia scuola tutti parlavano la stessa lingua e venivano da culture assimilate, ora non è più così e non dipende principalmente dall’arrivo di stranieri
Quando inizia la scuola? Il tema della età di ingresso, o ancor meglio, il tema della “regolazione” dell’ingresso alla scuola primaria forse non è più delegabile alla sola data di nascita. Troppe le differenze individuali e di percorso che riguardano gli alunni. Proviamo ad elencarne alcune. Frequenza della scuola dell’infanzia (disomogeneità di presenza a livello nazionale, difformità di modalità organizzative e didattiche, scelte delle famiglie…), condizione di appartenenza sociale, provenienza territoriale, da quanto tempo l’alunno parla la lingua italiana. Troppo grandi le differenze indotte per essere scaricate sulla capacità di omogeneizzare le situazioni
Come organizzare gli ordinamenti scolastici in funzione dell’età (la questione dei cicli)? Rispetto a quando è stata pensata la modellistica attuale cambiate alcune condizioni base. Per un verso è molto diffusa in molti alunni una capacità di comunicare e di accedere a fonti di comunicazione molto più vasta (fatta salva la disomogeneità prima accennata) per l’altro appare ormai incontrovertibile il dato della “adolescenza protratta”. Insomma la capacità dei ragazzi di acquisire livelli significativi di autonomia ha manifestato un progressivo rallentamento tanto che le attuali cesure organizzative sono solo amministrative e non funzionali a reali valutazioni di necessità relative allo sviluppo ed alla età
Quale scelta di linguaggio base? La risposta “la lingua italiana” è assolutamente insufficiente. Nonostante i vari timidi tentativi di modifica, il modello vigente è ancora quello letterario e colto. Grande attenzione è data agli elementi strutturali, scarsa a quelli comunicativi. Spesso la scuola in questo modo rifiuta, non integra, modelli culturali presenti, con effetti di lunga durata sul successo scolastico degli allievi. Non si tratta di adeguarsi al trash o alla povertà linguistica, si tratta anzi di trovare strumenti e modelli linguistici che arricchiscano ma siano anche “convincenti”, particolarmente in grado di conciliarsi con le attuali modalità della comunicazione. Bisogna insomma conciliare “la bellezza e la correttezza” del testo con la efficacia comunicativa, con la sua comprensibilità. I dizionari periodicamente integrano nuove parole “create” dal linguaggio presente, non so se periodicamente ne cancellino, ma sicuramente la lingua vive genera e uccide. Se questo vale per le parole possibili non debba valere per le regole linguistiche nel loro complesso?
Il tema dei linguaggi è il più esplicito indicatore del problema del “collante generazionale”. E’ sempre più vero che i giovani usano linguaggi e sistemi di comunicazione (di derivazione e base tecnologica) che i genitori e i nonni non praticano o addirittura non conoscono. Non è una questione banale, perché riguarda la possibilità che gli ambiti familiari possano partecipare (e per quanto tempo) alla formazione dei giovani. Un esempio, le famiglie sicuramente insegnano ai figli i pericoli connessi all’attraversamento di una strada ed i possibili rimedi; ma quante sono le famiglie in grado di fare la stessa operazione sui rischi di una frequentazione errata della rete e di un abuso della sorgente televisiva di informazione e di “riempimento di tempo”
La pressione sulla scuola di percorrere la strada delle educazioni (sesso, alimenti, droga, guida, ambiente, rifiuti, ….) è lo strumento sbagliato per affrontare un problema reale. I tempi con cui i giovani sono spinti ad affrontare le problematiche si sono raccorciati soprattutto causa la pressione mediatica. Giusto o sbagliato che fosse, ad esempio, i tempi addietro i tempi con cui i ragazzi affrontavano il tema del sesso (e collegati, soprattutto quello della gestione della propria immagine) erano certamente più lunghi e gestiti in modo diverso dalle singole famiglie. Ora in questo ed in altri casi non è più così e si ritiene che la scuola possa essere, in tempi da lei definiti, “soggetto sostitutivo” della propria funzione. In realtà quello che serve è la complessiva rivisitazione dei ruoli, che permetta alla scuola di gestire il mandato a lei affidati con strumenti idonei e con la collaborazione di chi sta intorno. Se non sarà così la scuola non sarà in grado di contribuire al meglio i “processi di consapevolezza” e la corretta “attesa di successo” come costruzione di un progetto di vita per cui impegnarsi.
Il ruolo della famiglia è il primo test di verifica della funzione del mondo esterno rispetto al funzionamento della scuola. Anni fa il “credito sociale” della scuola era tale per cui vi era un mandato completo e convinto per lei da parte delle famiglie. Il processo partecipativo partito negli anni ’70 è degenerato, nei fatti e in moltissimi casi, causa anche il processo di discredito cui la scuola è stata soggetta, in “contenzioso” verso la scuola. Le famiglie tendono a chiedere alla scuola di comportarsi secondo canoni da loro suggeriti e condivisi. Sappiamo che questo atteggiamento ha anche sostegni teorici notevoli contenuti nella cosiddetta libertà di scelta. Va costruita la consapevolezza che nel rapporto tra scuola e studente la famiglia deve essere “soggetto terzo”, qualsiasi sia l’età dell’allievo e il grado di scolarità
Questo rimanda al tema più generale della gestione di modelli culturali che riescano a conciliare le identità territoriali, valori irrinunciabili, con il “globale”, la consapevolezza che i luoghi hanno senso solo se collocato nel “complesso mondo". E’ la grande sfida dell’autonomia. Corollario non secondario di questa tematica è la “convergenza dei segnali educativi”: proprio la rapidità della informazione, la labilità della notizia, l’instabilità che la vastità dei problemi può causare nelle consapevolezze dei giovani, richiedono che ci sia una “volontà educativa” che deve condizionare complessivamente le scelte di tutto il sistema della comunicazione. Non si può pensare che nella società globale la crescita dei giovani sia demandata in esclusiva alla scuola intesa come “comunità educante” chiusa in sé
Non si riesce a superare il pregiudizio culturale verso la scienza, la tecnologia, il lavoro. Non è un dato specifico della scuola, anzi la scuola, almeno su questo interpreta l’atteggiamento culturale prevalente nella “intellighenzia” del paese. Questo crea gravi distorsioni non solo a livello degli individui (studenti e famiglie che “stratificano” la scelta di percorso sulla base della aderenza al modello scolastico vigente che premia gli studi classici) ma anche a livello istituzionale, economico, sociale. Banalizzando, se formiamo avvocati quando servono ingegneri, il danno è per tutti anche per coloro che non sono né l’uno né l’altro perché è la competitività del paese che viene compromessa. Non si riesce ad affermare una consapevolezza del fatto che a risultati equivalenti si possa giungere attraverso percorsi diversi. E’ appena il caso di sottolineare quanto questo sia paradossale in una società che inneggia alle tecnologie come strumento di unione tra le persone, di liberazione dal lavoro manuale, come mezzo di valorizzazione della creatività. Il lungo e irrisolto dibattito sulla Istruzione e Formazione Professionale e sulle scelte dei giovani all’uscita dalla scuola media sono il dato politicamente più rilevante di questa situazione. La sinistra è ancora prigioniera, in molte sue parti, dell’idea che la tecnologia sia “uno strumento del padrone".
Da affrontare e risolvere anche il tema del rapporto pubblico privato. Questo tema risente troppo spesso, e devo dire motivatamente, del pregiudizio pratico-ideologico verso la scuola cattolica. Significativo, e sicuramente collegato al punto precedente, è che quasi nessuno discuta del fortissimo protagonismo del privato nella formazione professionale. La chiave trovata dalla attuale normativa sulla parità è intelligente ma non risolutiva, perché definisce le norme di controllo sulla qualità (il fatto che le verifiche siano fatte in modo insufficiente fa sbandare ulteriormente la discussione), ma lascia in ombra, per dirla con un eufemismo, la questione “del come girino i soldi”. La mancata soluzione di questo problema apre di fatto lo spazio ad idee talebane, di tipo liberistico, quali il buono scuola. Va dato atto che le norme concordatarie piazzano un macigno sulla possibilità di trovare soluzioni utili e condivise. Un ripensamento sensato della scuola deve risolvere alla radice il problema, lavorando sulla qualità definita dalla stato e con un sistema di verifica reale, collaborativo, ma anche premiante e sanzionatorio. Non è ragionevole pensare che in questo settore, come già avvenuto in ambiti economicamente e socialmente rilevanti (energia, trasporti, sanità) non si debba definire un rapporto collaborativo fra pubblico e privato. Va evidenziato che nei fatti le presenze di privato laico nelle scuole sono assolutamente minoritarie e, nella scuola superiore, quasi esclusivamente speculative e legate ai diplomifici, anche questa è una vera anomalia.
Altro tema delicato è quello della integrazione dei disabili. Su questo la scuola italiana ha registrato grandissimi successi di principio e pratici che forse oggi meritano una rivisitazione. Ci si è già accorti che il sistema stava assumendo una deriva inaccettabile, quello della “medicalizzazione” di ogni tipo di difficoltà mostrato dai ragazzi. Prima i dislessici, poi i disgrafici ed infine (credo) i discalculici hanno rappresentato un punto critico della problematica. Reputo corretto che, almeno nei nostri territori, si sia giunti a decertificare questo tipo di difficoltà, affidando alla flessibilità della scuola il compito di affrontarle. Ma non basta, dobbiamo rilevare il fatto che ora i diversamente abili sono concentrati negli istituti professionali, dove vi è il massimo di presenze delle altre situazioni di difficoltà (disagio ed emarginazione sociale, immigrazione, insuccesso scolastico ..) e che proprio il successo delle battaglie per l’integrazione ha correttamente aumentato il numero degli studenti certificati. In questa situazione temo sia impossibile affrontare le tematiche solo con le metodiche dello “stare insieme” premiando sicuramente aspetti di natura socializzante, forse meno quelli legati all’apprendimento, la possibilità di “crescere insieme” in tutti i campi è legato all’equilibrio delle problematiche interne alla classe, altrimenti si rischia di generare classi o addirittura scuole “ghetto”. Il tasso di insuccessi nei professionali, la “fuga” delle famiglie da alcune scuole, sono più di un sintomo che le cose ora non funzionano.
Un ulteriore problema, connesso a quelli prima indicati, è che, in assenza di vaste iniziative di innovazione, gli studenti spesso percepiscono la scuola come “un mondo a parte”, con regole magari accettate, ma con scarsa connessione con il resto della loro realtà. Se questo avviene la scuola riesce a mantenere una propria identità che però in realtà non riesce a diventare un modello educativo e formativo. Temo che in questo modo la scuola rischi di fallire nella sua mission fondamentale, quella di “costruire il cittadino”.
Ancora, la scuola ha verso gli studenti, particolarmente alle superiori, un atteggiamento: on-off. Il meccanismo di promozione non ha modulazioni, è in capo al consiglio di classe l’onere di decidere se il complesso degli apprendimenti sia bagaglio sufficiente a proseguire, in caso di bocciatura ciò che è stato acquisito, poco o molto che sia, viene formalmente azzerato, l’allievo ricomincia tutto in modo indifferenziato. Questo in molti casi determina ulteriore demotivazione. Inoltre il modello “a programmi” ha determinato, nella valutazione, comportamenti legati più al livello “assoluto” degli apprendimenti che ai “differenziali di crescita”, con diretta “punizione” dei ragazzi socialmente più deboli o con percorsi scolastici accidentati
La situazione sopra indicata pone i docenti nella situazione difficile di far convivere esigenza di risultato e integrazione di soggetti. Tale situazione è “alleviata” nella situazione esistente, proprio dal fatto che le difficoltà sono stratificate e che il primo gradino dei livelli di risultato è in qualche modo dato dal tipo di scuola, o dalla scuola specifica, o dalla classe specifica di appartenenza dello studente. Si finisce quindi per fare riferimento ad una “medietà” della situazione di riferimento che definisce in parte le modalità di decisione della promozione. I professionali non solo registrano il massimo di selezione, ma nella gran parte dei casi producono i livelli minori, nei criteri “culturali” vigenti che trascurano gli apprendimenti che riguardano il lavoro, nel sistema scolastico.
Le perdite di tempo. Un esempio: l’educazione fisica nelle superiori. Sappiamo tutti che le due ore “imposte” servono a determinare un organico specifico, ma dal punto di vista dello studente sono solo un alleggerimento dell’orario. Molto raramente costituiscono un vero orientamento allo sport e i “giochi studenteschi”servono più a chi li organizza che a chi li pratica. Specialmente nelle zone urbanizzate sono disponibili per gli studenti occasioni sportive ben più significative di quelle offerte della scuola, lo sport dovrebbe divenire una area opzionale in cui la scuola si attiva solo per ottimizzare il rapporto territoriale ed eventualmente surrogare le carenze

Si potrebbero sicuramente aggiungere dati di valutazione, ma credo che già questo indichi un quadro di difficoltà che non è affrontabile con la metodologia della correzione dei particolari, anche di “grandi particolari” come il complesso delle superiori, tanto più con scelte di riduzione di investimento. Per questo credo sia necessario un lavoro teorico su cui costruire scelte operative conseguenti.
In specifico mi sembra risulti evidente che la scelta di basare gli ordinamenti sull’età degli studenti può funzionare solo in una società caratterizzata o dalla omogeneità o da una stratificazione sociale che giustifica-implica-causa processi di selezione sempre più elevati al trascorrere della età stessa. Ciò che è avvenuto in questo paese mi sembra che ben rappresenti questo assunto. Finché il complesso della scuola è stato riservato a pochi, il sistema ha sostanzialmente retto. L’arrivo della scolarizzazione di massa col corollario collegato della richiesta di successo, potenzialmente, per tutti, ha messo in crisi l’apparato.
Forse va preparato un modello di scuola in cui, anno per anno, si definiscano livelli di ingresso e risultati, un sistema di verifica delle caratteristiche individuali che ottimizzi l’ingresso dello studente nel sistema scolastico e il suo percorso, con sistemi flessibili di progressione verticale. Invece di centrare sull’età il sistema si tratterebbe di centrarlo sulle caratteristiche individuali. Questo modello consentirebbe di costruire gruppi di lavoro più omogenei, creare situazioni in cui curare le differenze, di qualsiasi tipo. Certo che si rischia di creare, con l’applicazione rigida del principio, le classi degli asini e quelle dei geni, ma una applicazione intelligente potrebbe favorire tutti gli studenti. Si deve lavorare per integrare la scuola dell’infanzia nel sistema. La eventuale definizione di una età minima di ingresso è demandata a valutazioni specifiche sulle caratteristiche dell’età evolutiva.
I percorsi in verticale non dovrebbero essere rigidi, soprattutto va evitato il rischio che lo studente debba rifare ciò che ha fatto positivamente. Bisogna essere meno rigidi sulle discipline e più attenti alle competenze complessive.
Probabilmente è sensato un ordinamento che abbia una cesura organizzativa, logica, didattica, funzionale, in corrispondenza a ciò che può essere ragionevolmente definita come una prima fase dello sviluppo mentale e psicologico dei ragazzi. Prima di questa cesura la preparazione è di tipo generalista, volta a consolidare gli strumenti della comunicazione e del consolidamento della personalità, dei sistemi di indagine, dei metodi di apprendimento e di possesso delle conoscenze, dopo vanno progressivamente valorizzate le inclinazioni, i metodi e gli apprendimenti che avviano al governo della propria vita, ivi comprese naturalmente le possibilità di trovare un lavoro corrispondente alle proprie aspettative e alla propria collaborazione. Le tre fasi che ora individuiamo, elementare, media superiore, sono assolutamente incongrue rispetto alla situazione esistente nello sviluppo dei giovani, non è un caso che sia la media la fase più critica, con un mandato di raccordo che non ha più spazio e ragione di essere nella situazione attuale.
Ritengo comunque che il tema centrale della ridefinizione del sistema scolastico riguardi la scelta dell’anima intorno cui costruire il resto. Si può ragionevolmente affermare che nelle scelte della scuola di base che oggi abbiamo il centro sia la lingua, strumento necessario su cui definire le identità e le possibilità di crescere, e intorno a questo scegliere “i riempimenti”, la matematica, poco le scienze, quasi nulla le tecnologie, un po’ di grafica e poco altro. Gli ordini superiori ricalcano il modello, aggiungendo, a seconda delle situazioni, elementi di percorso caratterizzanti diversi l’uno dall’altro, ma in generale le gerarchie iniziali vengono rispettate.
Forse il modello, nella parte centrale, va confermato, ma la domanda inevitabile è: di quale lingua stiamo parlando. Oggi la lingua che serve a comunicare, la cui ricchezza costituisce moltiplicatore di intelligenza e di possibilità relazionali, non è costretta nei limiti che ad essa sono stati assegnati anni fa. Bisogna parlare di linguaggi che hanno ruoli e importanza assimilabili. La lingua madre, la matematica, la grafica, il metodo di osservazione delle scienze, forse le lingue straniere vanno rivisti in termini paritari e come tali gestite. E’ chiaro che questo comporta alcune scelte che possono apparire dolorose rispetto ai modelli tradizionali (temo si potrà prestare meno attenzione al problema dei plurali in –ie, al dittongo e allo iato e così via), ma il mondo e la società di oggi richiedono nuovi approcci formativi, i messaggi viaggiano molto sulle immagini, la scuola non può trascurarlo. Bisognerà fare un lavoro attento sul cosa e sul come fare le scelte specifiche, in particolare riguardo agli strumenti utilizzabili per l’insegnamento e l’apprendimento, ma non credo esistano scelte alternative. Non ci possiamo più permettere di usare logiche diverse, nei fatti contrapposte, fra lingua madre, strumento matematico, metodo scientifico, pragmatismo tecnologico, bisogna verificare se sia possibile giungere ad una “fusion” che aiuti il processo di crescita. Tutto questo considerando che va tenuto un virtuoso bilanciamento fra ciò che è metodo e ciò che è contenuto. Non ha senso una scuola “procedurale” il tema dell’ancoraggio a conoscenze specifiche, da collegare ai livelli di età va affrontato con spirito nuovo. Ora abbiamo una scuola che in molte discipline è “ciclica”, si ritorna sugli stessi temi in ogni ordine di scuola, non mi sembra abbia molto senso, ma è solo un esempio sulle scelte da fare, che devono essere ampiamente selettive rispetto alla quantità di cose che si potrebbero affrontare.
Se questo è lo zoccolo duro della riflessione, resta aperto il tema, sollevato da molti, di altri aspetti della cultura, da sempre in qualche modo secondari, quando non addirittura trascurati. Un caso per tutti: la musica. Più in generale si potrebbe fare riferimento ai temi dell’arte, ma non dimentichiamo la storia e il diritto, su cui una riflessione va attivata.
Forse, poiché credo non tutto si possa fare, si dovrebbe fissare, già precedentemente al ciclo superiore, una area “per tutti” completate da aree vocazionali in cui espandere le caratteristiche specifiche degli alunni.
Da ultimo una nota sulla cultura del lavoro, la più negletta, ma forse la più complessa da maneggiare viste le scarse tradizioni in merito. Credo basterebbe vedere il lavoro come una opportunità, non un obbligo. Anche il lavoro ha suoi canoni che riguardano la vita delle persone, su questi la scuola deve lavorare “da subito”. Altra cosa è il lavoro come competenza spendibile sul mercato, su questo già molto si è fatto e non mancano le tradizioni. Valorizziamole, le esperienze altrui non sono necessariamente migliori, ma non dimentichiamo che la formazione per il lavoro, che riguarda anche il rapporto con la FP e la formazione continua deve avere la sponda della disponibilità di posti di lavoro e di rapporti contrattuali certi.